Newsletter 2017.11.30 al gruppo di mini rassegna stampa per amici.org

 

Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità.

 

Ogni circa 30 giorni estrapolo per amici, con filtro sui diritti umani, alcuni degli articoli che commento nel corso del mese attingendo da varie fonti informative (tra le quali Avvenire, Asia news, il Sussidiario, La Stampa, Vita Trentina, Corriere, Repubblica, ...); se tu desiderassi ricevere tale newsletter via email, potresti farmi richiesta di iscrizione nella mailing list e poi eventualmente revocarla (qui come fare)

 

Diritti umani di deboli innominabili come i Rohingya

 

Era lo scorso febbraio <agensir> quando Papa Francesco lanciava un appello a favore dei Rohingyacacciati via dal Myanmar, che vanno da una parte all’altra perché nessuno li vuole. È gente buona, pacifica, sono fratelli e sorelle! È da anni che soffrono: sono stati torturati, uccisi, semplicemente per portare avanti la loro tradizione, la loro fede musulmana”, ma quando, dopo aver progettato il viaggio apostolico in Myanmar, all'Angelus di domenica 27/08 il Papa parlò delle «tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa dei nostri fratelli Rohingya», monsignor Alexander Pyone Cho, arcivescovo di Pyay, la diocesi della regione di Rakhine dove risiede la minoranza musulmana, chiarì che «quello dei Rohingya è un tema sensibile e sarebbe meglio che il Papa non usasse questo termine durante la visita».

Infatti durante la visita del papa in Oriente <vatican> i Rohingya sono rimasti innominati ufficialmente in Myanmar (nominati solo durante la visita in Bangladesh).

<tempi>: i Rohingya sono un gruppo etnico di circa un milione di persone di religione musulmana che vive nel nord-est del paese, al confine con il Bangladesh: non sono mai stati accettati dalla maggioranza della popolazione birmana, buddista per l’89% e che ai Rohingya non riconosce cittadinanza, né accesso al sistema educativo e sanitario, né il diritto alla proprietà privata, mentre la persecuzione del regime nei loro confronti non è cessata da quando infierì a seguito del fallito tentativo di secessione nel 1961 e più recentemente a seguito di scontri armati con la polizia tacciati di terrorismo. Decine di migliaia di disperati Rohingya fuggono verso paesi musulmani vicini come Malaysia, Indonesia o Bangladesh, ma anche per questi Stati sono «persone non gradite»; la maggior parte dei fuggiaschi, circa 500 mila, vive in campi profughi in Bangladesh, apolidi anche lì, senza prospettive di ricevere cittadinanza.

Perché anche la presidente Aung San Suu Kyi, ancorché premio Nobel per la pace, può, senza temere ritorsioni internazionali, rifiutarsi di utilizzare il termine Rohingya e negare le violenze dell’esercito nei loro confronti? Per almeno due motivi

- il problema è effettivamente delicato con implicazioni sociali e politiche pesanti;

al buddismo la cultura dominante attribuisce un'immagine di prestigio che il politically correct non intende sciupare, anche perché il buddismo, secondo i laicisti, non ha un concetto di anima e dunque apparirebbe più vicino alla scienza del cristianesimo, per dirla con Odifreddi.

Se a comportarsi così contro i Rohingya fosse stata una maggioranza cristiana, o un regime non allineato con la suddetta cultura dominante, l'Occidente avrebbe innescato una guerra di regime change come fece contro la Serbia, Saddam, Gheddafi e Assad, il che, peraltro, non farebbe contro potenti intoccabili per atomica (come la Cina che impunemente massacrò tibetani, Tienanmen, Uiguri, ...) o intoccabili per inciucio in alleanze affaristico-militari (come l’Arabia Saudita che impunemente massacra Yemeniti e foraggiò Isis).

Forza del diritto o diritto della forza dei potenti?

Quanto a perseguitati innominabili per un premio nobel pace, la San Suu Kyi ha un illuminato precedente in Barack Obama che si rifiutò di nominare Cristiani perseguitati e Yazidi massacrati dai terroristi in Siria e Iraq e si rifiutò di definire genocidio il loro annientamento e diaspora; se Obama fosse stato un pio cattolico, c’è da scommettere che gli avrebbero ritirato il Nobel pace dopo il disastro umanitario che ha provocato in Libia con presa diretta, e in Siria con leading from behind.

Ma nel frattempo il mainstream, anziché puntare il dito contro “simpatici” persecutori e sanzionarli, va a tormentare il Papa perché non ha nominato i Rohingya in Myanmar, pur sapendo che già altre volte i Papi hanno accettato di stringere mani di capi di stato anche sanguinari, pur di poter abbracciare i sottostanti popoli sofferenti.

Trattenni dal 30 novembre queste riflessioni perché mi aspettavo la risposta di Fr1 al suddetto tormentone, che ho udito oggi 3 dicembre, formulata nel suo viaggio di ritorno

-  <repubblica, stampa> “Ho pianto per i Rohingya: volevano cacciarli dal palco” alla fine dell'incontro interreligioso di Dhaka “e anche che non parlassero con me; non l'ho permesso. Ho pianto per loro cercando di non farlo vedere e, dopo averli ascoltati, ho sentito crescere cose dentro di me e ho pronunciato il loro nome”. E spiega che nell'incontro col generale Ming Aung Hlaing di lunedì non ha “negoziato la verità”.

<vatican e qui udibile da Radio1mp3>: “A me interessa che questo messaggio arrivi. Per questo, ho visto che se nel discorso ufficiale [in Myanmar] avessi detto quella parola, avrei sbattuto la porta in faccia. Ma ho descritto le situazioni, i diritti di cittadinanza, «nessuno escluso», per permettermi nei colloqui privati di andare oltre. ...  ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia e così il messaggio è arrivato. ... Tante volte, le denunce, anche nei media – non voglio offendere –, con qualche dose di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta e il messaggio non arriva. E voi, che siete specialisti nel fare arrivare messaggi, capite bene questo.

E sui terroristi che hanno tentato di ergersi protettori di questa minoranza: è chiaro ci sono sempre gruppi fondamentalisti nelle religioni li abbiamo anche noi, ma io non ho scelto di parlare con questa gente, io ho scelto di parlare con le vittime di questa gente.

Cari illuminati statisti, datori e percettori di premi nobel, non vi parrebbe di avere da imparare ad agire per il bene comune con la forza dei diritti umani anziché col diritto della forza, magari azionato col pretesto di difendere diritti umani di rivoltosi, ma facendo così tanto disastro da far rimpiangere la qualità della vita che preesisteva all’intervento dei vostri missili?

 

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