Cos’è la (vera) FELICITÀ?

La Danimarca il paese più felice al mondo? Concordo col Prof Salvatore Abbruzzese che “a forza di ridurre la realtà solo a ciò che si può misurare e dimostrare empiricamente, la sociologia finisce spesso per edificare un'immagine mortificante dell'esistenza”, ma, trovo labili certe sue argomentazioni criticanti l’indagine sulla felicità a partire dalla presunzione che tale indagine avrebbe trascurato la dimensione relazionale: allo scopo pongo domande all’autore, contestualizzandole come al solito così.

[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 05/01/2024; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]

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2014.01.22  Traggo da il Sussidiario 22/01/2014

Di Salvatore Abbruzzese

La Danimarca è risultata essere, per i il secondo anno consecutivo, il paese più felice del mondo: lo dice una statistica realizzata dalle Nazioni Unite in 156 paesi. Norvegia e Svezia occupano rispettivamente il secondo e il quinto posto; la Svizzera è terza e i Paesi Bassi sono al quarto posto. Ma cosa significa veramente? Indagando in modo più approfondito si scopre come nei questionari somministrati in questo tipo di indagini non si parli tanto della felicità quanto della soddisfazione personale e della percezione di benessere. I danesi sono quindi i più soddisfatti riguardo al benessere che hanno raggiunto e al sistema sociale che hanno edificato: un recente referendum per la diminuzione delle tasse è stato da questi bocciato in quanto la maggioranza si è dichiarata favorevole al sistema attuale.

Come è noto, l’alta qualità del sistema di protezione sociale danese non si fonda solo sulla professionalità degli operatori e sull'onestà degli amministratori. La Danimarca ha anche tasse molto elevate (più alte dell'Italia) e una chiusura pressoché totale all'immigrazione (le norme danesi sono le più dure d'Europa). Aumento delle entrate dirette e abbattimento dei costi di assistenza verso gli immigrati hanno condotto ad un bilanciamento dei conti a partire dal quale il sistema di protezione sociale può espandersi in modo consistente.

Il consenso nei confronti di un tale sistema è plateale, ma perché parlare di “felicità" quando si tratta solo di soddisfazione ci vico-politica e di fiducia nelle istituzioni? È veramente L’unica forma di felicità possibile? A forza di ridurre la realtà solo a ciò che si può misurare e dimostrare empiricamente, la sociologia finisce spesso per edificare un'immagine mortificante dell'esistenza ed è su questa mortificazione che il cinismo dominante tesse le sue trame.

Eppure la felicità esiste e ciascuno di noi l'ha provata in precisi istanti della propria esistenza: in quei giorni lieti nei quali ha condiviso una gioia piena con coloro che gli sono cari. Quando non è confusa con l'euforia, la felicità è una particolare relazione d'affetti nella quale la gioia per la condivisione di un obiettivo conseguito o di una situazione vissuta insieme è direttamente proporzionale all'affetto che nutriamo per gli altri che, in quel momento, la condividono con noi. Per questo quanti non sono capaci di vivere la dimensione affettiva non conoscono nessuna felicità al di là della semplice euforia e vivono in un vero e proprio “cono d'ombra''.

La felicità ha quindi una precisa dimensione relazionale e solo una sociologia che indaghi su di una tale dimensione può essere l'unica in grado di analizzarla.

Cercarla con gli strumenti tradizionali, interrogando i singoli individui sulle soddisfazioni che ottengono e non studiando le relazioni significative che questi intrattengono gli uni con gli altri, porta a scoprire solo i livelli di soddisfazione per il benessere conseguito: ma è un'altra graduatoria, un altro universo mentale. [CzzC: caro Prof. Salvatore, ti chiedo

- se davvero credi che gli analisti non abbiano studiato le relazioni significative che i Danesi intrattengono gli uni con gli altri, cioè

- se sei certo che i redattori del questionario internazionale usino una sociologia che non indaga la dimensione relazionale dei soggetti indagati,

- o che i danesi non abbiano relazioni sociali come da te intese al meglio della felicità].

Fiducia nelle istituzioni e nel proprio prossimo, soddisfazione sul proprio lavoro e sui livelli di tempo libero, possono costituire le premesse per una vita serena, ma non hanno molto a vedere con la felicità. [CzzC: ti chiedo se davvero credi che le suddette fiducia e soddisfazione non abbiano molto a che vedere la felicità; faccio fatica ad intuire come sarebbe la felicità da te intesa in assenza di fiducia nelle istituzioni e nel proprio prossimo, soddisfazione sul proprio lavoro; capisco che i credenti martirizzati dai soviet potevano essere felici anche se non avevano fiducia nelle istituzioni, ma le due cose non sono mutuamente esclusive, anzi, la suddetta fiducia può favorire la felicità più che il contrario, altrimenti non   capirei perché la dottrina sociale della Chiesa ci spingerebbe ad occuparci della cosa pubblica e delle istituzioni come primaria forma di carità]. Concernono il benessere del singolo, non le sue relazioni significative con gli altri e non dicono nulla sulla gioia che questi può effettivamente provare [CzzC: solitamente gli aggettivi sempre e mai, tutto e nulla, ben usabili per entità matematiche, possono divenire presuntuose iperboli quando aggettivano entità non misurabili e dimostrabili empiricamente: ti chiedo se davvero sei certo che fiducia nelle istituzioni e nel prossimo e soddisfazione sul lavoro non dicano nulla sulla gioia].

Scambiare il benessere per la felicità è un'operazione culturale non priva di conseguenze ed è al cuore della modernità come costruzione culturale, cioè come concezione dell'uomo e dell'universo sociale. Il progetto moderno di emancipazione individuale e di realizzazione personale vede gli altri solo nei ruoli di comprimari, coadiuvanti, rete di “capitale sociale", retrovia di servizi e di legami. Il soggetto sembra non avere relazioni se non in forma sussidiaria, come appendice alle proprie necessità. Per una tale strada la felicità è semplicemente introvabile. [CzzC: anche per altre strade la felicità è spesso introvabile, ma percorrendo la strada nel verso considerato dagli analizzatori appare probabile che alla felicità ci si avvicini di più che percorrendola in senso inverso, non credi? Anche un credente farebbe fatica a credere che sia più vero il contrario].

In realtà, se la felicità è un'esperienza relazionale gli altri significativi sono determinanti. Sono proprio le relazioni con gli altri, la loro significatività, il peso ed il ruolo di queste relazioni nella nostra esistenza a rivelarsi decisive per la nostra felicità. Scoprire questa lieta dipendenza, questo legame essenziale è il percorso di crescita che porta ciascuno alla maturità. Ma di questo le statistiche non parlano. [CzzC: non ne parlano come tu ti spetteresti, ma ti chiedo se sei certo

- che gli analisti neghino o abbiano ignorato che le relazioni con gli altri sono decisive per la nostra felicità

- che i danesi siano assai più immaturi di quanto gli analisti vorrebbero farci credere.

Caro fratello di fede, il mio argomentare potrebbero apparire infondato agli occhi di coloro che avessero un’accezione dei termini felicità/serenità/gioia/soddisfazione coincidente con i tuoi discernimenti semantici, magari condivisi da tanti lettori de il Sussidiario, ma a mio avviso dovremmo imparare di più dal Papa che riesce a farsi capire da tanti anche non cattolici perché comunica attraverso una semantica sintonica con la media1 degli ascoltatori del mondo, non con la media2 di amici iniziati ad un linguaggio più specifico; nei confronti della media1 le tue argomentazioni mi apparirebbero di più labile convincimento per i seguenti motivi:

- non vedo sufficientemente documentato il sottile distinguo tra felicità/gioia da un lato e serenità/soddisfazione dall’altro, che porterebbe ad intendere la intersezione semantica {felicità serenità} come vuota di dimensione relazionale, la quale sarebbe confinata solo nell’insieme differenza {felicità meno serenità};

- mi pare azzardato supporre che non abbiano attinenza con la dimensione relazionale la fiducia nelle istituzioni e nel proprio prossimo, e la soddisfazione sul proprio lavoro.

Non so se la statistica in parola è andata ad indagare la dimensione relazionale familiare dei danesi, ma ci basti notare che la Danimarca, pur così chiusa all’immigrazione, ha un tasso di natalità di 11,2‰, contro 9,2‰ dell’Italia, cioè i/le danesi fanno il 22% di figli più degli italiani e dunque ti chiederei se non paresse anche a te che questo dato deponga più a favore che a sfavore della felicità relazionale.

Riterrei invece importante marcare un altro aspetto sottaciuto da tante indagini sulla felicità: se la felicità è intesa come valore,

- perché si sottace che tante persone posseggano quel valore assai meno di altre nella stessa nazione?

- perché si tace sulle responsabilità delle nazioni più felici verso la assai minore felicità di altre nazioni?

Io non dubiterei che i Danesi abbiano relazioni sociali/amicali di felicità come da te intese al meglio della felicità, semmai le avrebbero solitamente tra pochi intimi, come del resto avviene per la maggior parte degli umani, i quali credono che per godere la felicità, anche quella relazionale, non significhi attendere che tutti la abbiano analogamente, ma cercano semplicemente di mantenere il sistema di reciproca soddisfazione media: se da tale beneficio restasse parzialmente esclusa una minoranza che reclamasse più benefici con la forza del diritto, poco importerebbe ai sedicenti più felici, che sapessero dosare le forze in campo in modo che la minoranza meno felice non raggiunga la massa critica, cioè non raggiunga una forza dissuasiva sufficiente a creare grane insopportabili. Qui sta a mio avviso l’aspetto taciuto dalle indagini, silenzio ingannevole; e poco consolante sarebbe supporre che certi poveri disgraziati sono magari più felici di altri a motivo di una migliore componente relazionale della loro felicità (legami tribali, fede, ...): non potremmo negare del tutto un fondamento di verità al proverbio “se i soldi non fanno la felicità, figurarsi la miseria affamata”, perché nemmeno Cristo, con l’amore preferenziale per i poveri, ha detto che sia la povertà la chiave della felicità: lo sarebbe invece la povertà di spirito, cioè la non superbia, il non egocentrismo, l’apertura di cuore al prossimo, che magari i Danesi potrebbero avere non meno di altri, visto come si è comportata in Italia la mia/tua generazione che, col debito pubblico e gli intoccabili privilegiati diritti acquisiti, hanno creato il più grande latrocinio generazionale che la storia italiana ricordi.

Caro Salvatore: le mie domande sottintendono un tentativo di correzione fraterna, che intendo assolutamente reciprocabile].