VÁCLAV HAVEL: quando, il 1989.12.19 divenne presidente della Cecoslovacchia, il pensiero andò al titolo profetico di un suo pamphlet di undici anni prima, IL POTERE DEI SENZA POTERE

eroe della «rivoluzione di velluto» nel più poliziesco dei paesi del terrore totalitario sovietico, intellettuale perseguitato, poi presidente umanista.

Quando Havel vide che portavamo l'edizione di Cseo del Potere dei senza potere, capì che non potevamo essere i soliti giornalisti occidentali che dopo averli dimenticati per decenni, adesso che l'Orso sovietico cadeva nella polvere, piombavano nelle capitali dell'Est a caccia di storie e leader da incorniciare: Havel vide il libro e disse «Questi sono amici, hanno la precedenza». Finì con un'intervista, una dedica gentile, un cuoricino infantile vergati dal presidente sul volumetto Cseo.

[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 12/12/2020; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]

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↑2011.12.28 Traggo da Tempi pag 64-65 Il potere dei senza potere

Il 18/12/2011 è morto Václav Havel (qui Wikipedia), scrittore, drammaturgo e uomo politico praghese. Quando, il 29 dicembre 1989, divenne presidente della Cecoslovacchia (e poi, dopo la divisione dalla Slovacchia, della Repubblica Ceca sino al 2003), il pensiero andò subito al titolo profetico di un suo pamphlet di undici anni prima, Il potere dei senza potere (Ubaldo Casotto, I1 Riformista 20 dicembre 2011)

Di Luigi Amicone

LA PARABOLA DELIA NOSTRA AMICIZIA con Vàclav Havel (non è millantato credito, fu lui stesso a chiamarci «amici», vedi "Vàclav dalle cantine al cielo", Il Sabato, 14 aprile 1990) è interessante per almeno due ragioni. In primo luogo (notevole sotto il profilo pubblico), tale parabola ci consente di ricordare che l'eroe della "rivoluzione di velluto" nel più poliziesco dei paesi del terrore totalitario sovietico, ha avuto due vite: quella di intellettuale perseguitato e gettato ai margini della società e, all'indomani della caduta del Muro, quella di "presidente umanista" e intellettuale molto gettonato nello "star system" dei diritti umani. Una seconda ragione, all'apparenza molto privata e bagatellare, che muove il ricordo, serve a spiegare perché, circa un anno fa, durante una animata discussione telefonica via Radio 24 con Roberta De Monticelli, filosofa, polemista e "docente di chiara fama" all'università del san Raffaele di don Verzé, ci sembrò naturale invitarla a scendere dalla pianta della propria superiorità morale, per venire a prendere un caffè nei bassi fondi di quella Lombardia che la signora De Monticelli qualificò e qualifica di «mafìosità ciellino-formigoniana». Da dove può sorgere una simile esagerazione? Ecco, c'è un istante e una vita della parabola di Havel e noi [CzzC paragrafo non chiaro], che ci dà coraggio e ci invita a prendere per mano Roberta De Monticelli e tutto quel suo mondo puro, incontaminato, "angelico" (come Roberta definisce seriamente il suo amico Marco Travaglio e, appena un gradino sotto le potenze angeliche, Ezio Mauro, Michele Santoro, il serafino Eugenio Scalfari eccetera) per condurlo al cuore della «consorteria spaventosa di Cl» (questa l'espressione usata da Roberta De Monticelli nell'intervista pubblicata sull'Espresso dell'8 dicembre scorso). Segnalare un punto e una storia della vita di Vàclav Havel e noi, ci serve infatti ad accennare (ad accennarlo appena) alla rilevanza (inconosciuta) che ha avuto il carisma di don Luigi Giussani. E rilevanza, non tanto per la spaventosa consorteria, ma piuttosto per le sorti del mondo comune. Ed è importante accennarne oggi (vedete? C'è sempre del provvidenziale in ogni morte), in un momento del mondo comune in cui astrazioni finanziarie e malattie totalitarie (le utopie) proclamano nuovamente una ripugnanza tale verso l'imperfezione umana, che ben volentieri (come ha appena scritto il Guardian, illuminato quotidiano inglese, condannando la stella di Havel per mancata "compresione" di ciò che c'era di buono nel comunismo) sembrano oggi rilanciare programmi che facciano "piazza pulita" della schifosa imperfezione degli esseri umani. Ebbene fu in un tardo pomeriggio del 5 gennaio 1990 il momento in cui si coagulò la storia dell'amicizia tra Havel e noi. L'amicizia era quella cominciata da don Giussani che benedisse e sostenne con la sua gente l'opera di due grandi sacerdoti. Il primo, Romano Scalfì, che già sul finire degli anni Cinquanta frequentava da clandestino in Urss il "samizdat", uomini e donne "del sottosuolo", fitta rete di pacifici dissidenti in nome della libertà e dell'immortalità dell'uomo: essi affrontavano a mani nude e a prezzo della vita, nei gulag in patria e nel silenzio internazionale (determinato dagli eccessi prudenziali del terrore atomico, la famosa "epoca della Guerra Fredda", oltre che naturalmente dall'omertà degli intellettuali occidentali), lo strapotere del secondo padrone della terra, il regime contracezionario di Mosca.

L'opera di don Ricci e padre Scalfì

L'altro uomo era Francesco Ricci, forlivese, che come Scalfì prese a frequentare la dissidenza dell'Est europeo. Siamo già negli anni Sessanta e, sebbene Giovanni XXIII, il "papa buono" cosiddetto, avesse scelto la realpolitk rifiutando esplicitamente (è una vicenda agli atti, vedi Tempi, n°48 dicembre 2002) di benedire i movimenti di libertà in Urss, l'editrice Russia Cristiana per parte scalfiana e il Centro Studi di Est Europeo (Cseo) per parte ricciana, presero a pubblicare in Italia documenti, romanzi, poesie, piece teatrali, testi religiosi e pura e semplice cronaca che veniva dagli "uomini e donne del sottosuolo" (tutto materiale non soltanto inedito, ma anche misconosciuto e qualificato come "inopportuno", quando non tacciato di "filo fascismo", dalla cultura dominante italiana intrisa di egemonia gramsciana, machiavellismo Pci, indifferenza sessantottina, cecità del mondo democristiano e chiesastico). Tra i tanti testi, ricorda Ubaldo Casotto, il potere dei senza potere «fu materialmente portato al di qua della Cortina di ferro da un gruppo di donne recatesi in Cecoslovacchia ufficialmente per una vacanza, e che riattraversarono la frontiera con le veline del dattiloscritto di Havel nascoste sotto una scatola di formaggini Milkana». Chi era Václav Havel per gli allora gramasciani, eurocomunisti, berlingueriani, proponitori della mani pulite e della fatidica "questione morale", quella posta da Berlinguer a Scalfari nel 1981, evidentemente mancando entrambi del senso dell'umorismo? Così, come per le migliaia di ragazzi che avevano avuto la fortuna di incontrare Cl (nome tra l'altro inventato da Sante Bagnoli, fondatore e tuttora patron di Jaca Book, la casa editrice meno provinciale che ci sia oggi in Italia, tanto per dire che orizzonti ha prodotto la "consorteria"), nell’autunno-inverno 1989-1990, quando prima a Berlino e poi a Praga viviamo da cronisti (del Sabato), in presa diretta la caduta del comunismo, non ci parrà vero trovare conferma dei volti e delle parole che avevamo immaginato e letto in gioventù.

Il camerino del presidente

Tralasciando di dire i giorni della "rivoluzione di velluto" - l'ebbrezza in piazza e nelle "taverne del diavolo"- ecco, rimane quell'istante del tardo pomeriggio di un 5 gennaio, quando dopo la festa con gli amici al teatro Cinoherni Klub, piccolo teatro a ridosso di piazza san Venceslao, chi scrive e un certo Pavel Sepekovski ci infilammo di soppiatto nel camerino dove il presidente e il suo portavoce chiacchieravano. Lì per lì Havel non dette segno di nessuna familiarità e anzi, parve, condiscendere l'iniziativa del collaboratore buttafuori. Fu però sufficiente mostrare l'edizione di Cseo del Potere dei senza potere, che la scena si capovolse. Non potevamo essere giornalisti occidentali che dopo averli dimenticati per decenni, adesso che l'Orso sovietico cadeva nella polvere, piombavano nelle capitali dell'Est a caccia di storie e leader da incorniciare. Havel vide il libro e capì che genere di intrusi potevamo essere. «Questi sono amici, hanno la precedenza». Finì con un'intervista, una dedica gentile, un cuoricino infantile vergati dal presidente sul volumetto Cseo. Havel sapeva che razza di "consorteria" era la nostra. Definirci "cattolici" forse è una parola grossa. Diciamo che, come ci disse Giovanni Paolo II e una volta anche Giovanni Testori (altro che finì in "consorteria" e rivendicò con orgoglio e opere la sua amicizia con Cl), siamo dei senza patria. Per concludere di dove si è incominciato: ammalarsi di pensiero totalitario è ancora oggi la più grave delle iatture. Antidoti non ce n'è. O forse basterebbe un caffè in compagnia.