modificato 01/03/2017

 

30 anni dopo. Che ne è della memoria di Romero?

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Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità: contrassegno miei commenti in grigio rispetto al testo attinto da altri.

 

Oscar Romero teoglib? Semplicistiche equazioni e disequazioni non si addicono a questo vescovo martire che, ad esempio, si preoccupò anche dell'inquinamento del cattolicesimo con derivazioni marxiste

 

 

CzzC: traggo da cooperazione fra consumatori - aprile 2010, pag 19;

sottolineature mie come pure [CzzC: …]

 

Etica dello sviluppo

30 anni dopo.  Che ne è della memoria di Romero?

Trent'anni fa veniva assassinato Oscar Romero, vescovo di San Salvador. Aveva pronunciato parole scomode, tradito le attese dell'aristocrazia e del presidente in carica. Per fermare la carneficina che si stava compiendo nel Paese.

Di Alberto Conci.

 

Trent'anni fa, il 24 marzo 1980, veniva assassinato Oscar Romero, vescovo di San Salvador. Aveva pronunciato parole scomode, aveva tradito le attese dell'aristocrazia, dei latifondisti, della politica del presidente in carica, aveva osato far risuonare ben oltre i confini del piccolo Salvador la sua voce per fermare la terribile carneficina che si stava compiendo nel Paese. Ma chi era questo vescovo scomodo, e perché ne venne decretata una così infame condanna a morte?

Oscar Arnulfo Romero era nato a Ciudad Barrios, un piccolo paese di mille abitanti sul confine con l'Honduras, il 15 agosto del 1917, dal padre Santos, telegrafista, e da Guadalupe Galdàmez. Secondo di otto figli, introverso, taciturno e di salute cagionevole, a sette anni fu ridotto "muto e paralitico, un infante di sette mesi," da una misteriosa malattia, dalla quale guarirà "grazie a un dottore a piedi scalzi - o nonostante lui - ma per tutta la vita rimarrà fisicamente gracile" (Masina).

A dodici anni cominciò a lavorare come apprendista falegname e due anni dopo entrò nel seminario minore di San Miguel, una cittadina che era allora la "capitale della zona orientale del Salvador". Riservato e "amante della perfezione" fino ad essere "a volte poco indulgente con i deboli" (Delgado), il ragazzo della periferia si fece notare per la sua devozione e il suo attaccamento alla tradizione cattolica di stampo tridentino [CzzC: sottolineo le frasi attinenti al commento finale]. Questo tratto di esigente severità, con se stesso prima ancora che con gli altri, accompagnerà Romero per tutta la vita anche quando, molti anni dopo, le vicende del suo popolo ne avranno ammorbidito il carattere spigoloso e lo avranno aiutato a scoprire il senso profondo dell'amore e della comunione con gli uomini.

Nel 1937 Romero entra nel Seminario maggiore di San José de la Montana a San Salvador e pochi mesi dopo parte per Roma, per proseguire gli studi presso la Gregoriana. Rientrato in Salvador per il Natale del 1942, è instancabile sostenitore di una spiritualità severa e senza sconti, sostenendo movimenti come la Legione di Maria e l'Opus Dei; ma è anche uomo attento alle esigenze dei più poveri, organizzando le attività della Caritas, e fondando un gruppo di Alcoolisti Anonimi, atteggiamenti che lo rendono fra l'altro più amato dai laici che dai suoi confratelli. Gli anni del Concilio Vaticano II sono per l'America Latina di straordinaria fecondità sul piano teologico. Il grande sinodo della Chiesa latinoamericana di Medellin (1968) è un momento di grande speranza per la vita della Chiesa e per i movimenti popolari e ribadisce la necessità per la chiesa di porre al centro l'opzione preferenziale per i poveri. Ma Romero, pur cosi sensibile al tema della povertà, rimane distante dai fermenti teologici di quegli anni, preoccupato soprattutto del possibile inquinamento della dottrina cattolica con elementi di derivazione marxista.

Nel 1977 Romero viene nominato arcivescovo della capitale. La sua nomina è una sorpresa per molti, a cominciare da lui stesso, che si aspettavano la nomina di un vescovo più vicino alle teologie della liberazione [CzzC: nel seguito TdL]. Ma Romero sembra garantire in Vaticano una politica ecclesiastica conciliante con il potere politico. Egli prende possesso della diocesi in una celebrazione di cui Delgado annota: "quando Romero prese la parola, il silenzio fu sepolcrale e la reazione al suo discorso per nulla spontanea: si applaudì perché farlo era di rigore".

E’ il 22 febbraio del 1977. Venti giorni dopo, il 12 marzo, sulla strada che da Aguilares conduce a El Paisnal, viene assassinato padre Rutilio Grande, assieme a un vecchio e a un bambino che si trovano con lui. Per Romero è un momento terribile: non solo perché a padre Grande lo lega una profonda amicizia, ma anche perché la morte di Rutilio, il cui cadavere Romero veglia assieme ai poveri, ha fin da subito il sapore del martirio.

È questo, a detta di tutti coloro che lo conobbero, un punto di non ritorno, che molti hanno definito conversione, che Rivera Damas sintetizza in queste parole: "Un martire diede la vita ad un altro martire. Davanti al cadavere del padre Rutilio Grande, mons. Romero, nel suo ventesimo giorno da arcivescovo, sentì la chiamata di Cristo a vincere la sua naturale timidezza umana e a riempirsi della intrepidezza dell'apostolo". L'impressionante concentrazione teologica e la risolutezza con la quale Romero affrontò quei giorni difficili, la determinazione con cui prese in mano le redini della sua arcidiocesi, la vicinanza con il popolo, la lucida presa di posizione di fronte alle ambiguità del potere politico rivelano l'inizio di un nuovo cammino che lo condurrà alla morte martiriale.

Comincia così, all'insegna del sangue versato, il cammino dell'arcivescovo. I tre anni che seguono sono drammatici. Sul piano politico il governo del Paese, appoggiato dall'oligarchia terriera e dall'esercito affiancato da gruppi paramilitari, sceglie la strada della repressione. Puntando sulla radicalizzazione del conflitto politico - sono "comunisti" tutti coloro che non appoggiano il governo in carica - il governo del generale Carlos Humberto Romero (triste omonimia...), eletto come l'arcivescovo nel febbraio del 1977 grazie a una colossale frode elettorale, conduce in breve il Salvador in una condizione di violenza spaventosa che ha fra i suoi obiettivi anche la Chiesa. Nella sua prima Lettera Pastorale, che esce il 6 agosto del 1977, Romero scrive: "C'è persecuzione contro la Chiesa quando non le si permette di annunciare il Regno di Dio con le sue conseguenze di giustizia, pace, amore e verità; quando non si tollera la denuncia del peccato del nostro Paese che consiste nel lasciare gli uomini nella loro miseria; quando non si rispettano i diritti dei salvadoregni quando gli scomparsi, i morti, i calunniati continuano ad aumentare".

Romero non è solo. Può contare sul popolo, sulle persone semplici che ascoltano le sue interminabili omelie, sui sacerdoti che hanno riconosciuto il cambiamento radicale nella sua vita dopo l'uccisione di padre Grande; egli apre le porte dell'Arcivescovado a tutti coloro che vi cerchino riparo, rinnova l'impostazione del settimanale diocesano, potenzia la radio diocesana YSAX, che tutte le domeniche manda in onda le sue omelie, fonda con un gruppo di avvocati "Soccorso Giuridico", per offrire assistenza gratuita ai poveri e alle vittime della violenza.

Ma deve fare i conti anche con oppositori potenti, all'interno del suo stesso episcopato, che fanno giungere a Roma continue calunnie, accusandolo di essere succube delle dottrine marxiste e di essere responsabile di pericolose deviazioni dottrinali. Nel giugno 1979, alla fine di un mese di sangue, viene ucciso Rafael Palacios, un sacerdote che Rutilio Grande aveva fatto conoscere a Romero. È il quinto sacerdote che viene ucciso da quando Romero è arcivescovo. Nell'omelia funebre Romero denuncia l'omicidio come una "disobbedienza criminale al quinto comandamento, tu non ucciderai" e poi aggiunge: "Il sacerdote non è di sinistra né di destra. Il sacerdote sta all'altezza del cuore per amare tutti. Il sacerdote, voce della Chiesa, è amore che se si colloca per un'opzione preferenziale, a fianco del povero, non è per escludere coloro che possiedono, ma per dire loro che non si potranno salvare finché non sentiranno come propria l'angoscia del potere".

In questo clima giunge a Romero la notizia della sua candidatura, avanzata dal Governo britannico, al Premio Nobel per la Pace. Nei primi mesi del 1980 la situazione precipita e sembra che nessuno riesca a porre un freno alla repressione in atto verso chiunque sia anche solo sospettato di essere contro la politica violenta del governo.

Il 17 febbraio l'arcivescovo legge nell'omelia domenicale una lettera destinata al presidente degli Stati Uniti Carter, nella quale fra l'altro scrive: "Come cittadino del Salvador e arcivescovo dell'arcidiocesi di San Salvador ho l'obbligo di vegliare affinché regnino la fede e la giustizia nel mio Paese. Per questo le chiedo, se veramente desidera difendere i diritti umani: che proibisca che questo aiuto militare venga dato al governo del Salvador...". L'eco della lettera è enorme a livello mondiale, ma non riesce ad abbassare il livello di violenza e aumenta la diffidenza del Vaticano. Nel suo Diario, la sera del 18 febbraio, Romero annota anche che la lettera "ha creato subbuglio a Roma". Forse è vero, come ha notato qualcuno, che la lettera a Carter siglò la condanna a morte di Romero.

Il 23 febbraio il nunzio del Costarica avvisa Romero che la sua vita è in pericolo, ed egli sente, come solo poche volte gli è accaduto, una grande paura di fronte alla possibilità concreta di essere ucciso. Ma le minacce di morte non lo spingono verso atteggiamenti di maggiore prudenza per tutelare la propria vita.

Nell'omelia del 9 marzo, quando riceve il premio per la pace dall'ambasciata di Svezia, davanti ai cadaveri orrendamente torturati di due giovani sposi che vengono portati in cattedrale prima della sepoltura, dichiara che le vittime della repressione delle ultime settimane sono almeno quattrocento e che molti sono i morti che portano i segni della tortura.

Due settimane dopo, in una cattedrale gremita di persone, pronuncerà, a conclusione di un'omelia densissima, alcune delle sue parole più famose chiedendo ai soldati di deporre le armi: "Nel nome di Dio, dunque, e nel nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno sempre più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino nel nome di Dio: cessi la repressione!" Il giorno successivo, poco dopo le 18, mentre sta celebrando la messa nella cappella dell’Hospedalito nel quale ha scelto di porre, accanto ai sofferenti, la sua dimora, un sicario lo uccide, colpendolo al cuore con un fucile di precisione. Che ne è, oggi, della memoria di Romero?

 

 

L’enigma Rutilio

 

Così l'amico teologo Jon Sobrino ricorda la "conversione" di Romero.

Io credo che l'occasione della conversione di Romero - che fu anche luce e coraggio per il suo nuovo cammino - fu l'assassinio di Rutilio Grande. Romero conosceva molto bene Rutilio, e lo considerava un sacerdote esemplare e un amico; al punto che Rutilio fu maestro di cerimonia in occasione del suo insediamento episcopale. Ciononostante, Romero non condivideva la pastorale di Rutilio ad Aguilares; gli pareva eccessivamente politicizzata, troppo orizzontale, lontana dalla missione fondamentale della fede e pericolosamente vicina alle idee rivoluzionarie. Per Romero Rutilio era, allora, un "problema"; di più, un "enigma". Era da una parte sacerdote virtuoso, zelante, autenticamente credente; e d'altra parte la sua missione gli sembrava scorretta e sbagliata. Questo "enigma", io penso, è ciò che gli si chiarì con l'assassinio di Rutilio. Credo che, davanti al cadavere di Rutilio, a Mons. Romero caddero le bende dagli occhi: Rutilio aveva ragione. Il tipo di pastorale, di chiesa e di fede che aveva promosso Rutilio Grande era autentico. Ancora più profondamente Rutilio, morendo come Gesù, mostrò il più grande amore nell'impegno della sua vita per i fratelli, ed è questo che aveva reso la sua vita e la sua missione come quelli di Gesù; Rutilio era stato un grande discepolo di Gesù. Riassumendo, non era Rutilio Grande ma lui che aveva sbagliato; non era Rutilio colui che doveva essere cambiato, ma lui, Oscar Romero. E queste riflessioni, che in teoria si sarebbero potute fare attraverso la pura ragione, si tradussero nella decisione di cambiare, di portare avanti lui stesso la linea di Rutilio e, soprattutto, il cammino di Gesù. Davanti a un cadavere, come dice S. Ignazio nella contemplazione dei peccati davanti a Cristo crocifisso, la domanda decisiva è: "Che voglio fare per Cristo?", lo credo che la morte di Rutilio fu ciò che scosse In profondità Romero e gli diede la forza per un nuovo modo di agire; e che la vita di Rutilio impresse la direzione fondamentale anche alla sua vita.

 

[CzzC proprio questo insistere su chi aveva ragione e chi aveva sbagliato, pur riferendosi ad una situazione complessa dove, per risparmiare vite umane, la capacità di accorta mediazione e di dialogo tra contrapposte fazioni ed ideologie era (ed è) almeno altrettanto utile (e forse più) del coraggio di denunciare le ingiustizie, dimostra a mio avviso che Alberto intinge la sua pur ottima penna nell’inchiostro della TdL, ignorando le copiose ragioni per cui la Chiesa diffidò i fedeli dall’abbracciarla. Alla sfiducia teologica sulla TdL aggiungerei quella maturata sul piano pragmatico nell’oggi globalizzato, visto che i TdL-fans stanno ancora a cantare contro l’imperialismo americano, ma muti di fronte allo scempio sociale ed economico perpetrato dal CAPICOMUNISMO cinese in patria e con invasione planetaria. Con tale inchiostro attinto, forse Alberto spera di convincere qualche lettore che la tradizione cattolica di stampo tridentino, la spiritualità severa e senza sconti, il sostegno alla Legione di Maria e l'Opus Dei, la  preoccupazione del possibile inquinamento della dottrina cattolica con elementi di derivazione marxista, una politica ecclesiastica conciliante con il potere politico (il Vaticano chiedeva mediazione e dialogo, non sudditanza), atteggiamenti di maggiore prudenza, erano la parte sbagliata di Romero, recuperata nel giusto e nella pura ragione dalla sua conversione, dal cambiamento radicale nella sua vita; me no, anche perché ho troppo rispetto per quel vescovo martire per sposare certe semplicistiche equazioni e disequazioni].